Meditazioni sul Vangelo

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Med. buon_sa

L'AMORE DI DIO, L'AMORE DEL PROSSIMO E LA PARABOLA DEL BUON SAMARITANO

Lc 10, 25-37

La domanda del dottore della legge

La domanda che il dottore della legge pone a Gesù: Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna? È una domanda importante e molto interessante. È interessante perché esprime la preoccupazione per un'esigenza profonda del cuore dell'uomo, l'esigenza di venire in possesso, in qualche modo, di una vita che non finisca mai, di una vita che meriti di non finire mai perché sempre si rinnova, mai delude e mai annoia. Tutte le attività, tutte le esperienze che l’uomo può fare sulla terra prima o poi annoiano, deludono, non bastano a dare senso e gusto alla vita, non giustificano il fatto di esistere.

È interessante notare come il dottore della legge sia consapevole che questa vita eterna è, allo stesso tempo, qualcosa che dipende dalla nostra condotta, ma è soprattutto un dono di Dio, di qui l'importanza di sapere ciò che dipende da noi, per questo chiede: Che cosa devo fare per ereditare... C’è dunque qualcosa che dobbiamo fare per ereditare, ossia per ricevere come un dono.

La risposta di Gesù

Gesù non risponde direttamente, ma suscita la risposta chiedendo a sua volta: Che cosa sta scritto nella legge? Che cosa vi leggi? Come se gli dicesse: "Tu che sei esperto nelle Sacre Scritture, tu che ne conosci il contenuto, che cosa hai capito a proposito delle opere da compiere per ereditare la vita eterna?".

Il dottore della legge dimostra di meritare il titolo di dottore, risponde infatti mostrando qual è il cuore di tutti i comandamenti, qual è la sostanza di tutte le opere che dobbiamo compiere per ereditare la vita eterna: Amerai il Signore Dio tuo, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso. Questa è la risposta che Gesù stesso vuole dare, conclude infatti: Hai risposto bene; fa questo e vivrai.

Fa questo e vivrai

Questa affermazione dice senza esitazioni da che cosa dipende il nostro vivere o il nostro morire: noi vivremo se la preoccupazione principale della nostra vita sarà quella di impegnare tutto noi stessi nell'amore di Dio e nell'amore del prossimo. Se lo faremo, se questo sarà il compito principale della nostra esistenza, allora, a poco a poco, nella misura in cui il nostro amore verso Dio e verso i fratelli crescerà e si perfezionerà, incominceremo a sperimentare in noi il dono della vita eterna. Più cercheremo di amare Dio, più lo conosceremo e più lo conosceremo più lo ameremo, e crescerà il nostro desiderio di conoscerlo e di amarlo sempre di più; l'amore di Dio, poi, conduce all'amore del prossimo e l'amore del prossimo all'amore di Dio, perché solo se sperimenteremo in noi la dolcezza dell'amore di Dio saremo capaci di amare veramente il prossimo, e solo se metteremo dell'impegno per amare veramente il prossimo attireremo nel nostro cuore la dolcezza delle benedizioni di Dio. Così, per la nostra buona volontà e con l'aiuto della grazia giungeremo a ereditare la pienezza della vita eterna, ossia la pienezza della conoscenza di Dio Padre e di Gesù suo Figlio, così come è detto nel Vangelo di Giovanni: Questa è la vita eterna, che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo (Gv 17, 3).

Fa' questo e vivrai dice Gesù, ma che cosa succede se non facciamo questo? Succede che l'affermazione di Gesù diventa: Se non fai questo morirai. Infatti, se la condizione per ereditare la vita eterna è quella di amare Dio con tutto il cuore e il prossimo come noi stessi, se non ci impegniamo in questo non erediteremo la vita, ma come potremo vivere senza il dono della vita?

Conviene inoltre considerare che noi non abbiamo la vita in noi stessi; è vero che abbiamo una certa vitalità, ma questa vitalità naturale, lasciata a se stessa, tende ad esaurirsi e a spegnersi, ossia tende alla morte. L'unico modo per evitare questo esaurimento e questa morte, è agganciare la nostra vitalità naturale alla vitalità inesauribile della vita divina, e questo è possibile solo se l'amore di Dio e del prossimo diventano l'impegno principale della nostra esistenza. Il Signore nel Vangelo promette formalmente: Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me anche se muore vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno (Gv 11, 25). Non dice il Signore che il nostro corpo non morirà, ma che la nostra anima, se vive di fede e di amore di Dio, anche se il corpo muore lei vive per sempre; al contrario, anche se il corpo è in buona salute, la nostra anima è morta, se non è vivo in lei l'amore di Dio.

Da quanto si è detto dovrebbe risultare abbastanza chiaro che, mettere o non mettere in pratica i due comandamenti fondamentali della legge di Dio, non è una questione di poco conto ma è una questione di vita o di morte: se li metteremo in pratica vivremo, se non li metteremo in pratica moriremo.

Chi è il mio prossimo?

Il dottore della legge sposta poi l'attenzione sul secondo comandamento: Quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: "E chi è il mio prossimo?". Con questa domanda il dottore della legge vuole conoscere fin dove bisogna estendere la propria benevolenza verso gli altri; c'erano infatti diversi modi di intendere la parola "prossimo": c'era chi la voleva limitare ai componenti della propria famiglia, chi la voleva estendere agli abitanti del proprio villaggio o della propria città, e chi la voleva estendere a tutti i membri della nazione; c'era in definitiva la preoccupazione di stabilire un certo limite all'amore per il prossimo.

Gesù risponde con la famosa parabola del buon Samaritano; e noi, dopo duemila anni di cristianesimo siamo in grado di rispondere: “Il mio prossimo è ogni uomo che incontro lungo il cammino della vita”. Il fatto che Gesù non si sia limitato a una risposta così sintetica, ma abbia voluto raccontare una parabola ricca di particolari, dovrebbe richiamare la nostra attenzione e il nostro impegno nel cercare di comprendere un po’ più a fondo la parabola del Signore.

Cerchiamo allora di esaminare gli elementi fondamentali del racconto. Ci viene detto in primo luogo che un uomo, incamminato su una strada che scende verso il basso, si trova coinvolto in una brutta avventura, la disavventura è talmente grave che il malcapitato si trova in pericolo di morte, e morirebbe sicuramente se qualcuno non si fermasse a soccorrerlo; tuttavia, quelli da cui verosimilmente avrebbe potuto sperare aiuto non si curano di lui, viene invece premurosamente soccorso da uno straniero, uno verso cui c'è inimicizia da parte dei Giudei, questo straniero viene poi indicato come modello da imitare nell'esercizio dell'amore del prossimo.

Per avere luce e conforto da questa parabola, potremmo dividere la riflessione in tre parti: 1. Come Dio vede la storia dell'umanità; 2. Quello che Dio fa per l'umanità; 3. Qual è il nostro compito.

I - Come Dio vede la storia dell'umanità

Per capire come questa parabola esprima la visione di Dio sulla vicenda umana, possiamo soffermarci su alcuni aspetti di carattere geografico. Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico… così inizia il racconto di Gesù. Gerusalemme era la capitale politica e religiosa degli Ebrei, era la città santa, a Gerusalemme c'era il tempio di Dio, il luogo dove ogni Ebreo era chiamato ad adorare, e tutto il popolo vi saliva periodicamente per esprimere il suo amore al Signore, per compiere voti e fare sacrifici; Gerusalemme rappresentava dunque il luogo della comunione con Dio. Ora, Gerusalemme si trova a un'altitudine di circa 750 metri sopra il livello del mare, mentre Gerico è una città poco distante dalle rive del Mar Morto, e si trova a circa 250 metri sotto il livello del mare, il dislivello fra Gerusalemme e Gerico è quindi di 1000 metri, inoltre, la strada che collega le due città è impervia e pericolosa, e proprio percorrendo questa strada l'uomo incappa nei briganti.

La storia dell'umanità è simile a quella dell'uomo che scendeva da Gerusalemme a Gerico, infatti, come quell'uomo si era incamminato su una strada scoscesa e pericolosa, una strada che lo portava sempre più in basso, tanto in basso da terminare sotto il livello del mare, così, l'umanità ha voltato le spalle a Dio e si è incamminata su una strada scoscesa e pericolosa; come quell'uomo percorreva una strada che sempre più lo allontanava da Gerusalemme, ossia dal luogo della comunione con Dio, così l’umanità sta percorrendo vie che sempre più la allontanano dalla comunione con Lui, ma chi si allontana da Dio non può più beneficiare delle sue premure e della sua protezione, si troverà così esposto alle insidie dei briganti; e come i briganti hanno spogliato e percosso quell'uomo lasciandolo mezzo morto, così l'umanità, lontana da Dio, cade in molteplici e dolorose disavventure. Come quell'uomo fu spogliato, così l'uomo quando si allontana da Dio viene spogliato della dignità di figlio di Dio, e questo non è senza conseguenze. Infatti, se viene meno la dignità che deriva dall'essere tutti figli di un unico Padre, viene anche meno il rispetto reciproco e il rispetto verso se stessi, allora non possono che aumentare le reciproche offese, le prepotenze, le ingiustizie, con conseguenti squilibri nella vita dei singoli e della società. Con il venir meno della dignità di figlio di Dio, l'uomo viene privato del riferimento all'autorità del Padre Celeste, autorità a cui bisognerà rendere conto delle proprie azioni un giorno, così, con il venir meno della coscienza e del timore per il giorno del giudizio, le furberie, la corruzione, la violenza, l'immoralità, tendono a dilagare.

Spogliato della dignità di figlio di Dio l'uomo viene privato della speranza di giungere al possesso di quel bene che solo può appagare il suo cuore, senza la speranza di abitare un giorno nella casa di Dio la prospettiva dell'uomo è ristretta ai soli beni terreni e questi sono destinati a lasciarlo sempre insoddisfatto. Con la lontananza da Dio viene meno nell'uomo l'amore di Dio, ossia viene meno la vita della sua anima, perché l'anima dell'uomo vive se è vivo in lei l'amore di Dio. Così, percosso da svariati mali, l'uomo giace a terra ferito, sanguinante, solo, mezzo morto, non completamente morto e non completamente vivo, è lì tra la vita e la morte e, se non viene soccorso, certamente morirà.

Un sacerdote scendeva

Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall'altra parte. Per l'uomo ferito morente e solo è una prima frustrazione, una prima delusione: aver bisogno di aiuto, sperare un aiuto e non riceverlo è una ulteriore ferita che accresce il dolore e la solitudine. Ma come poteva ricevere aiuto da uno che, anche se sacerdote, stava percorrendo una strada pericolosa, una strada che lo conduceva lontano dalla casa di Dio? In realtà la situazione di quel sacerdote era peggiore di quella dell'uomo che giaceva a terra ferito, perché questo era ormai consapevole del suo male, della sua caduta e della necessità di chiedere aiuto, e più in basso di dov'era non andava, mentre il sacerdote, per la durezza del suo cuore, proseguiva la sua discesa.

Passò oltre dall'altra parte

È sempre scomodo e doloroso lasciarsi sconvolgere dal mistero della sofferenza e del male, si preferiscono le scappatoie, le fughe in luoghi dove tentare di far rientrare la realtà entro schemi più rassicuranti; ma sia il mistero del male, sia quello del bene sono più grandi dei nostri poveri schemi e, se non ci lasceremo iniziare, secondo una pedagogia che Dio solo conosce, alla comprensione e alla convivenza con questi misteri, un giorno o l'altro il loro peso ci schiaccerà. In fondo, dietro ogni fuga c'è l'ingenuità o la presunzione di voler affrontare il cammino della vita con le sole nostre forze, ma con le nostre forze, di fronte a certe situazioni, non rimane che la fuga.

Anche un levita

Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Visto il comportamento, quel levita non poteva che essere diretto anche lui verso il basso, e il povero malcapitato riceve un altro colpo, rimane cioè ferito dall'indifferenza di chi gli passa accanto e non si ferma per dargli almeno un po' di conforto; la sua angoscia aumenta ancora e rischia di trasformarsi in disperazione, infatti, se proprio un sacerdote e un levita, ossia coloro che sono chiamati al servizio di Dio e alla conoscenza della sua Parola, non hanno avuto compassione di lui, da chi mai potrà sperare compassione?

È spesso quando si giunge all'estremo delle forze e della speranza, quando non è più possibile contare né su noi stessi né sul soccorso altrui, che si realizzano le condizioni perché sorga dal cuore la preghiera che Dio da tempo aspettava, preghiera che è una richiesta umile e sincera del suo intervento nella nostra vita. Allora, per vie imprevedibili, Dio interviene, e mostra cosa è capace di fare per coloro che si affidano a Lui.

II - Ciò che Dio fa per l'umanità

Siamo così giunti alla seconda parte della riflessione, quella che si propone di considerare quello che Dio fa per l'umanità. Visto che l'uomo, nella situazione in cui si trova, non riesce a risollevarsi da solo perché è troppo debole e sono troppo gravi le sue ferite, Dio decide di venire Lui, di persona, in suo soccorso. Un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino, poi caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore dicendo: “Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno”.

Queste parole descrivono quello che Gesù ha insegnato e fatto per gli uomini. Anche Lui si è messo in viaggio per venire a cercare l'uomo che si era perduto, e, lontano da Dio, era caduto nelle mani dei briganti e giaceva a terra mezzo morto. Il suo viaggio è stato dal Cielo alla terra e dalla terra al Cielo. Giunto sulla terra, non fa come il sacerdote e il levita che, pur vedendo l’uomo ferito a morte, chiudono il cuore e proseguono il cammino.

Gli si fece vicino; per l'uomo afflitto e sofferente è un primo sollievo, un conforto e un motivo di speranza. Gesù però, non solo si avvicina ma si mette anche a curare le sue ferite. Lui sa cosa bisogna fare per curare chi giace a terra ferito e nudo, Lui sa come curare chi, consapevole del proprio stato, accetta di lasciarsi toccare da Lui, di lasciare che vengano esaminate proprio le ferite più gravi, quelle che forse si ha vergogna di mostrare. Solo Gesù sa come curare la nostra infelicità, il nostro scoraggiamento, le delusioni, la solitudine, l'incapacità di amare, le durezze di cuore, i dubbi, le disperazioni, l'orgoglio, la tiepidezza, le passioni disordinate, le ire, l’aggressività, le vigliaccherie, i tradimenti... Chi di noi non ha sofferto o non soffre, tanto o poco, per qualcuna di queste ferite?

Gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino. L'olio e il vino potremmo paragonarli alla misericordia e alla giustizia, alla dolcezza e alla forza, alla consolazione e alla punizione, che Gesù mette in atto per curare le nostre ferite. Chi ha il compito di educare o di governare, se vuole agire con saggezza sa che, per curare certi mali, un'eccessiva severità o un'eccessiva durezza sarebbero controproducenti, come pure un'eccessiva clemenza, la saggezza consiste invece nell'usare con sapienza sia l'uno, sia l'altro atteggiamento.

Caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Chi è debole e dolorante a causa di molte ferite non può essere lasciato sulla strada, ma deve essere trasportato in un luogo in cui possa riposare, nutrirsi, essere protetto dalle intemperie e riprendere così, a poco a poco, le forze e la salute. Allo stesso modo, per guarire i nostri mali Gesù ci conduce nella sua Chiesa, luogo in cui troviamo riposo - almeno una volta alla settimana -, siamo nutriti con la Parola di Dio e i sacramenti, siamo educati ad amare Dio e i fratelli, siamo difesi e protetti dai pericoli che insidiano la salute dell’anima. La Chiesa è il luogo in cui Gesù si prende cura di noi.

È poi detto che il Samaritano trascorre la notte nella locanda, e il giorno seguente paga di tasca sua per provvedere al sostentamento dell'uomo ferito. La notte che il Samaritano trascorre nella locanda potremmo vederla come una figura della passione e morte di Gesù per noi, e il rialzarsi al mattino come una figura della sua risurrezione; è infatti con la sua passione e morte che Gesù paga il nostro debito d'amore nei confronti del Padre: Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore dicendo: "Abbi cura di lui".

Quell'abbi cura di lui è come un'eco della preghiera che Gesù farà al Padre per i suoi discepoli durante l'ultima cena; così infatti prega in quella notte: Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a Te. Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola come noi... non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno (Gv 17, 11. 15). Gesù si apprestava infatti a partire e durante la sua assenza voleva affidare i suoi alle cure e alla protezione del Padre suo; e per chi è ancora debole, in chi c'è ancora il rischio di qualche ricaduta, è di conforto sapere che c'è qualcuno incaricato di vegliare su di lui e sa come regolarsi anche nel caso di possibili ricadute; termina infatti la parabola: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. C'è in quest'ultima frase un'allusione abbastanza evidente sia alla partenza di Gesù da questo mondo secondo la sua forma visibile, sia al suo ritorno alla fine dei tempi quando regolerà ogni conto rimasto in sospeso, quando nel giorno del giudizio sistemerà definitivamente ogni cosa.

Gesù termina invitando a riconoscere al di là delle antipatie - i Giudei non erano in buoni rapporti con i Samaritani -, chi si era comportato secondo il comandamento dell'amore del prossimo; chiede infatti Gesù al dottore della legge: Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti? E il dottore della legge deve ammettere: Chi ha avuto compassione di lui. La conclusione di Gesù: Va e anche tu fa lo stesso, ci invita a riflettere su quello che dobbiamo fare noi, alla luce dell'esempio che Gesù ci ha mostrato.

III - Quello che dobbiamo fare noi

Quello che dobbiamo fare noi dipende dallo stato in cui si trova la nostra anima. Ci sono dei momenti o dei periodi in cui siamo nello stato in cui si trovava l'uomo percosso dai briganti prima che giungesse il buon Samaritano, altri momenti in cui non dobbiamo far altro che lasciarci medicare le ferite dal Signore, ed altri ancora in cui, nell'albergo, riacquistiamo le forze e ci esercitiamo nelle attività di una vita normale.

Il momento del dolore e dell'abbandono

Ci possono dunque essere dei momenti in cui si è percossi fino alla morte dal volgere impietoso degli eventi, momenti in cui, come dicono i profeti: Meglio per me morire che vivere (Gn 4, 8), momenti in cui si spera vivamente l'aiuto di chi ci passa accanto ma l'aiuto non viene, e chi ci passa accanto contribuisce ad approfondire le nostre ferite con la sua insensibilità, la sua indifferenza o la sua incomprensione, quando poi questa esperienza si protrae nel tempo, si giunge a rasentare la disperazione. In questi momenti si sperimenta quanto è amaro vivere lontano dalla casa del Padre, “esuli figli di Eva”, come dice il Salve Regina. Questa è la situazione dell'uomo percosso dai briganti prima di incontrare il buon Samaritano.

Ebbene, la parola di Gesù, nonostante la gravità della situazione, da cui non si esce con le proprie forze perché sono esaurite, né con l'aiuto degli uomini perché o non vedono o girano alla larga dal nostro dramma, invita ad avere ancora speranza: un viandante straniero e misterioso, uno verso cui, forse, non c'è molta simpatia, può giungere fino a noi, guardarci con amore e curare le nostre ferite, il suo nome è Gesù. Quello che dobbiamo fare quando siamo in questa situazione è sapere e credere che Gesù può e Gesù vuole venire in nostro soccorso.

Il momento delle cure

Se poi l'incontro con il buon Samaritano è avvenuto, e già si è messo a curare le nostre ferite, quello che dobbiamo fare è lasciarlo lavorare senza intralciare o rallentare la sua azione; non conviene protestare perché le cure fanno male e le medicine sono amare, e neanche dobbiamo indicargli noi qual è il trattamento più adatto al nostro caso. Dobbiamo lasciarlo lavorare anche quando non comprendiamo quello che sta facendo; il Signore ha dei tempi e dei metodi imprevedibili e sorprendenti, il rischio che corriamo è di ritirargli la nostra fiducia e il nostro consenso quando quello che ci succede sfugge al nostro controllo e alla nostra comprensione, allora, forse non a parole ma nei fatti gli ritiriamo la fiducia, e il Signore si vede costretto a sospendere le cure perché la nostra libertà gli resiste, rischiamo così di privarci della possibilità di acquistare le vere forze, la vera salute e la vera vita: la vita di Dio in noi.

Una delle debolezze fondamentali, una delle ferite più profonde che abbiamo, è proprio la mancanza di fiducia in Dio, non crediamo a sufficienza nel suo amore, non crediamo al suo desiderio e al suo potere di guarirci, di fortificarci, di renderci felici. Questo perché il fondamento su cui poggia la nostra esistenza siamo noi stessi e non Dio, è la vita sulla terra e non quella del Cielo, così, quando Dio vuole cambiare il fondamento è come se ci mancasse la terra sotto i piedi, è come se ci fosse il terremoto, tutto crolla e noi abbiamo paura, allora, a seconda dei casi, Dio diluisce questi terremoti lungo il corso della vita così che, a poco a poco, impariamo a fidarci di Lui anche quando tutto crolla intorno a noi.

Un altro metodo per infondere in noi la fiducia è quello di farci passare per situazioni contrarie alla nostra sensibilità e alle nostre inclinazioni; chi accetta di passarvi si rende poi conto che, se si è riusciti a reggere in certe situazioni, non è stato per le proprie forze o per la propria volontà, la quale non trovava che disgusto e ribellione, ma per un dono misterioso della grazia. Però, se ogni volta che siamo invitati a passare per dove non ci piace diciamo di no e ci tiriamo indietro, come farà il Signore ad aumentare la nostra fede? Come farà a stabilirci su quel fondamento che non crolla anche se vacillano le fondamenta della terra? Se poi insistiamo nel voler fare di testa nostra, se continuiamo a respingere le proposte del Signore, ricadremo inevitabilmente in situazioni più dolorose e complicate di quelle che la nostra cocciutaggine e le nostre paure avrebbero voluto evitare. Dobbiamo lasciarLo lavorare anche quando nel curare le nostre piaghe è costretto a farci un po' male, vale a dire quando, illuminando la nostra coscienza, ci mostra l'insufficienza della nostra fede, la durezza del nostro cuore, le brutture, le miserie e le inquietudini per cui, nonostante la nostra buona volontà: Non compiamo il bene che vogliamo, ma il male che non vogliamo (Rm 7, 19); questo accade perché impariamo sia a conoscere noi stessi, sia a conoscere come le nostre miserie possono venir sanate dalla sua misericordia, e la nostra povertà colmata dalla sua ricchezza.

Il momento della riabilitazione

Rimane da considerare lo stato di coloro che si trovano nell'albergo. Questi, come abbiamo detto, riacquistano le forze e si esercitano nelle attività di una vita normale, ossia sono coloro che, dopo varie cure, hanno posto il fondamento della loro vita quotidiana in Dio più che in loro stessi, e per questo riacquistano le forze e con esse si esercitano nell'amore di Dio e nell'amore del prossimo.

Consapevoli che da se stessi non possono fare nulla, si studiano di mettere in pratica la dottrina e gli esempi che il Signore ci ha lasciati. Così, se nei primi tempi non riusciranno ad imitare in tutto il Signore, provano tuttavia a fare quel che possono. Ad esempio, se lungo il corso della loro vita incontrano qualcuno che soffre nel corpo o nello spirito, non passeranno oltre, ma gli offriranno almeno il conforto della loro vicinanza, se non possono fare altro, offriranno la loro comprensione e le loro preghiere, contribuendo ad alleviare, almeno un po', almeno per un momento, il dolore di chi è nella prova. Altri, un po' più robusti, faranno come il giumento del buon samaritano, ossia, contribuiranno con il loro sacrificio, le loro preghiere, il loro buon esempio o la loro parola, a trasportare nell'albergo, ossia nella Chiesa, coloro che, incappati nei briganti, feriti e doloranti, accettano di ritornare sulla via della rettitudine e della comunione con il Signore.

Come in un albergo ci sono varie mansioni, tutte ordinate a soddisfare le esigenze degli ospiti, così nella Chiesa ci sono diverse vocazioni e diverse attività, tutte ordinate a soddisfare le esigenze dell'amore di Dio e del prossimo. Così, ci sarà chi è più sensibile ai bisogni di coloro che soffrono nel corpo, altri si dedicheranno a confortare e curare coloro che soffrono nell'anima; altri saranno impegnati a prevenire sia gli uni che gli altri mali. Cercando di amare come Gesù ama, ognuno è impegnato a crescere nell'amore e ad avere uno sguardo di bontà verso tutti, i vicini e i lontani, i bambini e gli anziani, gli amici e i nemici.

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Meditazioni  Info
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    Non è così facile comprendere le Scritture - Il centro delle Scritture - Un progetto singolare - Non è una questione di belle parole.

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    Non ho nulla da offrirgli - Un singolare amico - Non conosciamo noi stessi - Fatti per un altro mondo ...

  • La parabola degli operai nella vigna (Mt 20, 1-16)

    Difficoltà  di comprendere un comportamento ingiusto - Ingiustizia che torna a nostro favore - Chi consola questa parabola.

Consapevole che le meditazioni proposte non sono che incerti balbettii, faccio appello alla carità  del lettore perché vengano accolte con benevolenza. In fondo, davanti a Dio, siamo tutti dei bambini bisognosi di imparare a parlare l'unica lingua che si parli nel suo Regno, la lingua dell'amore.

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